Avremo una sola lingua?

Visualizza PDF – 2015-02-08-AmericaOggi-Milli

PRIMO PIANO \ Mezzo secolo fa veniva fondato l’Istituto IntellettualeEuropeo del CNR per studiare l’evoluzione dell’italiano e degli altri idiomi.Le responsabilità di Tv, radio e giornali. Ce ne parla Giovanni Adamo

Antonio Lamarra dirige l’lstituto peril Lessico Intellettuale Europeo eStoria delle Idee, nato nel ’64 da un progetto culturale lanciato da Tullio Gregory, progetto che il CNR ha recepito e fatto proprio, e si avvale della consulenza di unComitato d’Istituto. Tra i principali campi d’indagine, quello delle “Migrazioni” e dell’“Osservatorio neologico della lingua italiana” costituiscono due filoni di attività relativamente più nuovi rispetto alla tradizione di ricerca dell’Istituto, in particolare quest’ultimo pone attenzione, attraverso lo strumento della banca dati, alla situazione della lingua italiana contemporanea e al fenomeno del conio di neologismi, assai rilevante in questi anni nella nostra lingua.  Giovanni Adamo (nella foto) è il responsabile dell’Osservatorio,il cui obiettivo principale è quello di “rilevare le linee di tendenza nella formazione di neologismi e nel verificare la vitalità dell’italiano contemporaneo nell’uso dei meccanismi di produzione e di formazione”.

L’evoluzione di ciò che voi rilevate comporta anche delle perdite per la lingua italiana?
«No, perdite non direi, piuttosto delle trasformazioni, ma questo sta succedendo in tutte le lingue europee, non è un fenomeno solo dell’italiano, da un lato perché gli Stati Uniti sono leader in tanti settori, ma soprattutto perché è l’inglese che si è imposto come lingua veicolare, quindi è ovvio che tutte queste nuove espressioni nel campo dell’economia, della finanza, circolino in inglese. Non solo anglisti, ma neoformazioni, non necessariamente espressioni inglesi, così come sono spesso possono essere presenti, da noi si sono imposti “spread”, “default”, espressioni che sono passate tali e quali dall’inglese».
Quindi non affiancano un significato italiano, lo sostituiscono.
«Lo sostituiscono in questo caso, però ci sono moltissime altre parole che vengono dall’inglese ricalcate in tutte le altre lingue, il fenomeno è simultaneo e proprio di tutte le lingue di cultura europea. Anche la Francia che era così attenta alla sua lingua, in realtà dice “bulle financière, bulle immobilière”.Sono delle espressioni che sono passate ovunque, siccome si presentano nella forma esteriore di neoformazioni di una lingua perché hanno le unità lessicali di quella lingua, sono costruite sintatticamente secondo i criteri di quella lingua, non stupiscono il parlante medio, cioè la persona della strada,che sente parlare di “bolla finanziaria” non viene colto da sorpresa, se però andiamo ad approfondire, noi in italiano non penseremmo mai a una bolla finanziaria, quindi assumiamo un concetto nuovo che si esprime in forma italiana. Oggi ci sono anche neoformazioni del tutto autonome di lingua italiana, per questo va sottolineata l’importanza dei giornalisti, i creatori del linguaggio, un filtro fondamentale,oggi i creatori del linguaggio non sono gli scrittori letterari, ma è il giornalismo, questo è molto importante. Anche perché dalla letteratura le parole non passano più facilmente nella lingua parlata, mentre dai giornali sì».
Per molto tempo c’è stata un’esigenza inversa, cioè di avvicinare la lingua letteraria alla lingua parlata.
«La storia dell’italiano da questo punto di vista è molto particolare rispetto a quella di altre lingue come lo spagnolo, il francese o il tedesco perché loro hanno una tradizione di lingua parlata popolare molto diversa dalla nostra. Noi siamo arrivati a una lingua condivisa fondamentalmente dopo la guerra,cioè molto tardi, soprattutto con la radio e la televisione, è quello che ha fatto dell’italiano la vera lingua unitaria degli italiani, prima l’italiano era un po’ più lontano, nel senso che rimaneva una lingua letteraria, colta, prestigiosa, ma forse meno vicina ai fatti della realtà e quindi alla loro espressione sociale. Questo anche per la forza dei dialetti, per cui nella vita quotidiana nella maggior parte delle Regioni la forza del dialetto è stata e ancora è piuttosto notevole».
Come si è ovviato a questi regionalismi, a questo predominio dei dialetti nell’Italia che nasceva come Stato unitario?
«Con la nascita della Nazione c’è stato bisogno di predisporre tutta una serie di dizionari dai dialetti all’italiano, fenomeno che nessuna lingua ha vissuto in queste proporzioni. Un piemontese che doveva mettersi in contatto con un siciliano aveva delle enormi  difficoltà di comprensione, allora è nata proprio una lessicografia che potremmo definire sociale alla fine dell’Ottocento, per facilitare il passaggio dai dialetti alla lingua del nuovo Regno. In un periodo ancora di grandissimo analfabetismo dal quale siamo venuti uscendo dopo la Seconda Guerra Mondiale, o meglio dopo gli anni Cinquanta,l’elemento di coagulo principale è stata la diffusione della radio e della televisione, è così che è entrata nelle case di tutti gli italiani la stessa lingua e si è cominciato a diffondere l’uso di leggere i giornali anche in ambito sociale meno elevato».
Un italiano che vive negli Stati Uniti come può recepire quello che sta succedendo alla lingua italiana in patria?
«Si sta producendo un’osmosi nuova perché la globalizzazione non è solo la circolazione libera di merci e di persone, è anche la circolazione di culture, di innovazioni tecnologiche, scientifiche, di pensiero, anche a livello basso, attraverso le reti sociali. Noi abbiamo cambiato il contesto della comunicazione in modo radicale negli ultimi vent’anni, questo, però, non riguarda più solo l’italiano, che si poteva ormai considerare una lingua consolidata come lingua unitaria, ma tutte le lingue europee».
E’ possibile immaginare una lingua più povera rispetto all’origine perché, appunto,accoglie in sé troppe trasformazioni?
«Questo credo francamente che sia difficile, ho capito dove vuole arrivare, io le dico che non sono d’accordo nel sostenere che i messaggini, le e-mail impoveriscano l’italiano».
Forse lo destrutturano.
«Molto più lo destrutturano questi passaggi che avvengono in modo celato esteriormente, lei pensi a un’espressione come “organismo geneticamente modificato”».
E’ probabile che non si tratti di trasformazioni, ma di nuovi linguaggi rispetto all’italiano.
«Questo è molto più plausibile, perché sta accadendo un po’ in tutto il mondo, non solo in Europa, con l’inglese, lei saprà che l’inglese,definito dal principe Carlo “impoverito e corrotto”, in realtà si sta modificando nelle realtà territoriali più lontane, mi riferisco alla Cina, all’India, dove c’è una pressione forte di inserimento di meticciato tra quello che è il modello che viene utilizzato abitualmente per gli affari, le comunicazioni anche internazionali, ossia l’inglese, e le loro lingue che premono dentro l’inglese, quindi si vanno definendo delle aree “local”. Veramente il termine corretto sarebbe “glocal”, qualcosa che da globale si differenzia poi nelle singole realtà e soprattutto in situazioni completamente diverse. E’ necessario porre maggiore attenzione ai nuovi orizzonti che si dispiegano, la Rete è pervasiva, sempre più ampia è la quantità di termini passati direttamente dall’inglese nelle lingue europee, più è numeroso il gruppo di quelli che parlano una lingua e più si conteranno effetti».
Gli effetti, come le trasformazioni, sonosempre legati a una transitorietà?
«Fino a un certo punto, nel senso che certe cose poi rimangono, è vero che probabilmente fra cinquant’anni non esisterà più il computer come lo conosciamo oggi, ma si dovrà tener conto anche di questi strumenti per descrivere quello che ci sarà tra mezzo secolo. Sono cose che rimangono, per noi ormai sostituire la parola computer è impossibile, abbiamo preso questo prestito e rimane».
Quale attività ritiene sia prioritaria per preservare la lingua italiana?
«Cultura e lettura, non esistono altri rimedi. Uno studio recente avviato da Tullio De Mauro ha dato come risultato che l’86%del lessico italiano è il lessico del Trecento, con piccole modificazioni ortofoniche che sono cambiate».
Quali impressioni ha, leggendo un giornale italiano, secondo Lei, un italiano che vive negli Stati Uniti da una o due generazioni?
«Sicuramente ci sono degli elementi che discostano dalla comprensione, si troverà in questa situazione simmetrica, cioè non riuscirà a cogliere certe novità che si sono prodotte negli ultimi anni».
A quale destino andrà incontro la lingua italiana che ha non troppi parlanti nel mondo?
«E’ un po’ difficile da prevedere, per quanto un po’ si possa azzardare, sicuramente noi assorbiremo e continueremo probabilmente in modo più marcato l’uso di termini derivati dall’inglese, mi sembra comunque difficile pensare che da qui a cento anni si arrivi tutti a un’unica lingua. Il problema della lingua è legato fondamentalmente al peso di una cultura».
Tutto ciò che si afferma nell’uso linguistico viene considerato corretto grammaticalmente?
«Tendenzialmente è difficile che vengano fuori delle cose completamente fuori dagli schemi, è difficile leggere sui giornali delle costruzioni sintattiche che esulano dalla struttura dell’italiano, i modelli di costruzione sono ormai collaudati. Noi, come Osservatorio, abbiamo cominciato a lavorare nel 1998, raccogliendo le citazioni dai giornali, qui entrano in gioco da un lato la creatività dei giornalisti, perché ognuno è libero di inventare parole che poi non rimarranno nell’uso reale, dall’altro il trasferimento operato perché i giornalisti, leggendo notizie che vengono dall’estero,trasferiscono, con gli articoli in italiano sui giornali, queste conoscenze nuove che si producono, tutte le novità, siano intellettuali, tecnologiche, o scientifiche e qui bisogna costruire, il giornalista ha un ruolo di filtro importantissimo in questo senso. I giornali sono una camera di compensazione tra le lingue, perché mettono in circolo tutte le novità che si producono e poi le travasano in ogni lingua, tra l’innovazione che si determina in ogni campo, scientifico, tecnologico, delle conoscenze, del costume, della politica, e la lingua di tutti i giorni perché entrano in essa».

Paola Milli – America Oggi – tutti i diritti riservati