Femminismo – La rivoluzione del Seicento

By 20 aprile 2000Senza categoria

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Parlare delle donne può creare problemi. E infatti spesso lo si è fatto nascondendo il disagio dietro lo scherzo, la battuta, il paradosso. Vediamo ad esempio il caso di Galeazzo Flavio Capra, colto umanista, segretario di Francesco II Sforza. Nel 1525 pubblica Della eccellenza e dignità delle donne, un testo che oggi possiamo leggere nell’ edizione curata da Maria Luisa Doglio (Roma, Bulzoni, 1988). Il bravo umanista si impegna a dimostrare che le donne sono superiori agli uomini da tutti i punti di vista (morale, fisico, intellettuale) e lo fa con abbondanza di argomentazioni, di dotte citazioni, di esempi antichi e moderni. Ma, come si dice, in cauda venenum. Proprio nelle ultime righe, infatti, veniamo a sapere che il Capra è innamorato di una donna sposata e che ragioni di decoro gli impediscono di celebrarla col suo nome («parendogli disdicevole alla donnesca onestà che donna piaccia molto ad altri che al suo marito»). Per questo, dice, ha scelto di lodare tutte le donne; nello specchio del testo, fintamente universale, la donna amata potrà rispecchiare se stessa e, insieme, riconoscere l’ omaggio del suo ammiratore. Ma allora, cosa resta al lettore di tutta la dotta materia che ha attraversato? Le prove storiche, filosofiche, letterarie che dimostrano la superiorità delle donne sono soltanto un omaggio galante? Il testo, naturalmente, non dà risposta: sta davanti a noi con questa chiusa che getta una luce inquietante su tutto il resto, e che rende dubbia e problematica la nostra interpretazione. Non è, come si diceva, un caso isolato. Con il Cinquecento il mondo femminile tende a conquistarsi, pur tra mille ostacoli e contraddizioni, un nuovo protagonismo, una nuova visibilità. Il mercato editoriale, in cui le donne cominciano ad avere un ruolo anche come scrittrici, favorisce la produzione di una quantità notevole di dialoghi, di trattati, di lettere sulla donna e sull’ amore. E’ una produzione alla moda in cui spesso circola una logica ambigua, a volte paradossale. E’ così che la nuova presenza delle donne viene detta e insieme negata, riconosciuta e insieme distanziata. Una tradizione di lunghissima durata aveva descritto lo specifico della natura femminile. Fra le molte cose che si sapevano con certezza – oltre ad esempio al fatto che la natura cerca sempre di creare un maschio, e che la femmina nasce solo per errore e per difetto – c’ era il fatto che alle donne ci si deve rivolgere con particolari modalità. I predicatori sapevano bene ad esempio che le donne (come i bambini e il volgo) si convincono con gli exempla, raccontando cioè storielle esemplari, mentre le rationes (gli argomenti razionali) funzionano solo con un pubblico maschile di un certo livello. L’ idea che la donna sia del tutto impermeabile alla forza della ragione è così forte e così rassicurante che quando la realtà la smentisce si producono reazioni violente, di sarcasmo, di satira. Così capita nel secondo Seicento, quando la satira contro le femmes savantes segna la reazione a un fenomeno nuovo, al fatto cioè che molte donne si interessano alla filosofia e alla scienza. Diventa allora di particolare interesse studiare come si sia creata questa realtà nuova, come sia successo cioè che in molti paesi d’ Europa, e soprattutto in Francia, delle donne si siano avventurate in campi che «per natura» dovevano essere loro preclusi. Su questa linea si muovono due importanti raccolte di saggi di autori diversi, che escono quasi contemporaneamente in Italia e in Svizzera: si tratta di Donne filosofia e cultura nel Seicento, curato da Pina Totaro per il Consiglio Nazionale delle Ricerche, e di Femmes savantes, savoirs des femmes (Genève, Librairie Droz), in cui Colette Nativel raccoglie gli atti di un colloquio tenuto a Chantilly. I due libri cercano di esplorare un’ età che sta a metà strada fra l’ irrigidimento controriformistico che segue la fioritura cinquecentesca da cui siamo partiti, e d’ altro lato l’ affermarsi di un nuovo tipo femminile, che si avrà soprattutto con il Settecento: quello appunto della femme savante, della donna che corrisponde con scienziati e filosofi, che pubblica opere proprie e traduzioni di opere altrui, che anima salotti in cui il rigore del confronto intellettuale si intreccia con lo charme dell’ arte della conversazione. Quel che più resta in mente, dalla lettura dei due libri, è una straordinaria galleria al femminile: un affollarsi di personaggi, di vicende, di notevole ricchezza e varietà. Da Angela Tarabotti, la monaca veneziana che parte dalla sua personale esperienza per denunciare il fenomeno della monacazione forzata (la sua opera La semplicità ingannata si intitolava in un primo tempo Tirannia paterna; pubblicata nel 1654, viene messa all’ Indice) e fa parte di quelle scrittrici, come Lucrezia Marinelli e Moderata Fonte, che controbattono le tesi misogine, molto diffuse nella pubblicistica contemporanea: Che le donne siano della spetie degli huomini si intitola uno scritto della Tarabotti, e questo basta a dare un’ idea del livello della polemica; dalla cultura che fermenta nei monasteri, si diceva, alle donne che diventano protagoniste di imprese editoriali, in genere vedove, che proprio per questo godono di un particolare statuto giuridico. E ancora: donne che partecipano al dibattito filosofico, e sono in uno stretto rapporto, di corrispondenza, di amicizia, di complicità, con grandi personaggi, come capita fra Cartesio e Elisabetta di Boemia, tra La Fontaine e Madame de la Sablière, fra Locke e Damaris Cudworth. Appare chiaro, dai saggi raccolti nei due volumi, che le vicende raccontate si intrecciano con mutamenti profondi: così ad esempio la querelle sulla educazione delle donne si intreccia con la querelle des anciens et des modernes, e le donne si interessano alla filosofia e alle scienze anche perché la filosofia e le scienze stanno cambiando, così come stanno cambiando i linguaggi e le forme della comunicazione del sapere. Ad esempio nel 1722 esce una traduzione dei Principi di filosofia di Cartesio fatta da una donna, Giuseppa Barbapiccola «tra gli Arcadi Mirista». Certo il tradurre si confaceva a una donna: rientra (secondo il codice dominante) in quelle attività minori, in cui ci si mette al servizio di qualcuno e di qualcosa piuttosto che esporsi in prima persona, salvaguardando la modestia che il sesso femminile deve custodire sempre come dote preziosa. Nello stesso tempo possiamo leggere questo episodio come una riprova del fatto che il cartesianesimo, e la polemica che suscita, hanno un ruolo importante nelle vicende che i nostri due libri ripercorrono. Già prima, nel secondo Seicento, un nuovo tipo di giornalismo si rivolgeva a un pubblico europeo di dotti e di «curiosi», e nello stesso tempo contribuiva a crearlo. Giornaliste combattive partecipano all’ impresa, anche se a volte sono costrette a firmarsi con nomi maschili, proprio come quelle eroine delle commedie rinascimentali che si travestono da uomini per poter girar liberamente per il mondo. Parlavamo prima di una galleria al femminile. Al di là della metafora una vera e propria galleria di ritratti si affaccia, grazie alle illustrazioni, dal libro curato da Pina Totaro: donne che leggono, donne che scrivono, e anche affascinanti autoritratti delle pittrici – da Sofonisba Anguissola a Artemisia Gentileschi a Judith Leyster – e ancora Cristina di Svezia che, in un elaborato frontespizio, trionfa circondata dalle scienze e dalle arti.Una galleria di immagini che aiuta a dare forma e vita alle molteplici figure evocate dalle parole dei saggi contenuti nel volume. L’ autrice di questo articolo è docente di Letteratura italiana alla Scuola Normale Superiore di Pisa.

Bolzoni Lina